venerdì 31 luglio 2020

Streams Of Whiskey

Già dal primo disco dei Pogues le capacità compositive di Shane MacGowan dispiegano tutta la loro potenzialità per quanto riguarda l'ironia, il disincanto e la gioia di vivere, o trascorrere, un'esistenza votata al qui e ora. Viene chiamato in causa un riferimento letterario imprescindibile, uno dei più importanti autori irlandesi, il Brendan Behan che ha a che fare anche con la riproposizione di "The Auld Triangle" nello stesso LP, una canzone compresa nel suo lavoro teatrale "The Quare Fellow", del 1954.




Sognai di incontrare Behan
Gli strinsi vigorosamente la mano e trascorremmo gran parte della giornata
Quando fu interrogato sul suo punto di vista
Per quanto riguarda la croce delle filosofie sulla vita
Non ebbe da dire altro che queste poche chiare e semplici parole
Me ne andrò, me ne andrò
Da qualunque parte soffi il vento
Me ne andrò, me ne andrò
Dove scorrono fiumi di whiskey

Ho imprecato, spergiurato
Sono evaso e son finito in prigione
La vita spesso ci ha provato a costringermi
Ma il cappio era sempre lasco
E ora che ho un gruzzoletto
Me ne andrò giù a Chelsea
Ci entrerò sulle mie gambe
Ma uscirò sdraiato a pancia in sù

Me ne andrò, me ne andrò
Da qualunque parte soffi il vento
Me ne andrò, me ne andrò
Dove scorrono fiumi di whiskey

Oh le parole che disse
Mi sembrarono la più saggia delle filosofie
Non si guadagna mai nulla
Da quel qualcosa di umido che chiamano una lacrima
Quando il mondo è troppo scuro
E ho bisogno di una luce dentro me
Me ne entro in un bar
E mi bevo quindici pinte di birra

Me ne andrò, me ne andrò
Da qualunque parte soffi il vento
Me ne andrò, me ne andrò
Dove scorrono fiumi di whiskey
Dove scorrono fiumi di whiskey
Dove scorrono fiumi di whiskey 

giovedì 23 luglio 2020

Whirling Dervish

Da "Sack Full Of Silver" disco del 1990.



Mi rendo conto, sono trascorsi due o tre paragoni
Ma da qualche parte nel retroterra del più calmo dei tuoi giorni
Un frammento di carta fluttua nell’aria a mille piedi d’altezza
Abbandonato da qualche diavolo polveroso che è morto e lì lo ha lasciato

Il vento scava a fondo e pela via l’epidermide al terreno
La corrente ululante cancella le impronte dalla mia mano
Io so che sei una creatura di terra e aria
Se uno diventa troppo pesante l’altro semplicemente scappa via

Quando togli il guinzaglio alla sabbia e al vento
Sono sospeso a opera dei tuoi occhi
Mi contorco come un coleottero trafitto da uno spillo
Tra il diavolo e il profondo blu del cielo

Il vento lecca via la carta catramata con lingue sabbiose di gatto
Innumerevoli proiettili cornuti si conficcano nei polmoni di un amante
Alla fine vedo i fantasmi che sono stati sempre con me
Ruotando su un asse fissato dritto in linea con il sole

Quando la sostanza della nostra vita insieme diviene troppa
E tu minacci di togliere il turbine del tuo tocco
Io sono solo un pezzo di spazzatura a un miglio di altezza
Che si aggrappa alla sabbia cadente che mi tiene in cielo


venerdì 17 luglio 2020

Thin White Rope e la poesia del decadimento

Questa settimana traduco un articolo tedesco sui Thin White Rope, in originale sul sito https://gabelheu.de/





Thin White Rope e la poesia del decadimento

Tutto ciò che vive prima o poi non sarà più. La transitorietà ci avvolge, simile a una veste invisibile, che indossiamo fino a quando l’ultimo accordo dell’esistenza è risuonato. Difficilmente un’altra band ha messo in musica questa cognizione in maniera più adeguata di quanto abbiano fatto i Thin White Rope. Fondati nel 1981 a Davis, California, e denominati seguendo una descrizione poetica di William S. Burroughs per lo sperma, il quartetto, i cui unici componenti costanti nel tempo sono stati il cantante e chitarrista Guy Kyser e il chitarrista Roger Kunkel, diede alla stampa cinque album in studio: monoliti musicali, creati usando nuova psichedelica, alt.country e krautrock, che avevano come argomento il Divenire, l’Essere e il Trascorrere.

I testi di Kyser (qualche volta coautore con altri membri del gruppo) sono ineguagliati nel mondo musicale: come ammiratore del grande maestro del neo-Western da vecchio testamento, lo scrittore Cormac McCarthy, ritrasse personaggi abbandonati alla tempesta dell’esistenza. La canzone “Down in the Desert”, ad esempio, propulsa spietatamente dallo staccato dei tamburi, la prima del disco di debutto “Exploring the Axis” del 1985, racconta di un uomo che dopo anni trascorsi girovagando nel deserto torna nel suo villaggio. Non è più colui che era una volta: “Karl tornò e lavora e sorride/ ma se guardi più da vicino c’è ancora qualcosa di impaurito nei suoi occhi”, canta Kyser con voce evocativa. Karl non rimarrà l’unico personaggio che di fronte a una Natura schiacciante, immensamente minacciosa, arriva a percepire la nullità della propria esistenza.

Sul secondo lavoro, pubblicato nel 1987 il deserto diventa effettivamente suono: le canzoni esercitano già ogni elemento di quello che anni dopo sarebbe passato alla storia dei fumatori come Stoner Rock. Il pezzo che più apertamente tratta della morte è “Coming Around”, una sorta di Hillbilly sferzante sulla rinascita. “Dave vidi il tuo piccolo pugno intorno alla tetta di una lebbrosa / Gesù camminava affianco a te e non te ne fregava un cazzo / Andy uccise un animale, lo uccise con le proprie mani / e lo diede tutto a me perché ero una donna allora” sbraita Kyser, il quale con l’ultimo verso da per scontata l’assurdità della separazione tra i sessi.

Il filo rosso molto evocato è nei Thin White Rope più che soltanto una variazione sul tema della morte. Le cognizioni si propagano di album in album, simili a escrescenze selvaggiamente proliferanti, vengono indagate e nuovamente accettate. “Whirling Dervish”, uno schiacciante Bluegrass imbevuto di malinconia dal quarto album “Sack Full of Silver”, diventa un’ammissione della temporaneità: “Quando la sostanza della nostra vita insieme diviene troppa / e tu minacci di togliere il turbine del tuo tocco / io sono solo un pezzo di spazzatura a un miglio di altezza / che si aggrappa alla sabbia cadente che mi tiene in cielo”. Qui la minacciosità di  Down in the Desert cede a un’accettazione dell‘inevitabilità come componente fissa del nostro Essere.

Kyser si reca definitivamente nel grembo della morte in “The Ruby Sea”, il tonante pezzo di apertura dell’omonimo quinto e ultimo lavoro dei Thin White Rope. Qui l’io narrante è un cadavere annegato, il quale vuole trovare riposo nel mare. Il suo sforzo viene disturbato da una donna, la quale dapprima attraverso il fondo trasparente di una nave lo osserva, quindi si accovaccia nuda davanti a lui: “Ma non sto pensando a quella perdita / ma solo al fatto della perdita”, ammette Kyser. Non indente rimuginare sul desiderio fisico, che un tempo era parte del suo essere, ma piuttosto sul dato di fatto che la perdita è inevitabile – e che anche lo sguardo al grembo, che dona vita, non porterà alcun cambiamento.

Purtroppo non ci sarebbe stato seguito. 28 anni fa i Thin White Rope tennero nella città belga di Gent il loro concerto di addio, il quale di lì a breve uscì come album doppio con il titolo The One Who Got Away ed è entrato negli annali musicali di chi scrive come più importante e commovente momento Live della storia. Troppe poche le persone che durante la loro carriera si accorsero di questa formazione eccezionale. E nel frattempo poco è cambiato. Il gruppo Facebook di fan dei Thin White Rope arriva appena a 701 membri, tra cui anche ex componenti del gruppo. Visto con gli occhi di oggi, un motivo potrebbe essere che Thin White Rope nella loro determinazione – sia per quanto riguarda il loro sound, sia nei testi – per molti fossero semplicemente troppo opprimenti.

Sostituirono la striscia argentea all’orizzonte con un’alluvione apocalittica, che avrebbe dovuto trascinare via ognuno barcollante nell’eternità. Coloro che furono pronti a lasciarsi trasportare scoprirono la malinconia, la nostalgia, lo struggimento, la fragilità, che furono sempre anche parte del loro universo. Un universo che va scoperto in tutta la sua bellezza putrescente.

Christian Leinweber


venerdì 10 luglio 2020

The Sweetest Gift


Una canzone scritta da James B. Coats, insegnante di musica e compositore di molti brani gospel, e incisa per la prima volta nel 1946, fu poi ripresa da Linda Ronstadt sul suo album “Prisoner in Disguise”.



Un giorno una madre si recò in una prigione
A trovare un figlio prezioso, che aveva sbagliato
Raccontò al guardiano quanto ella lo amava
Non importava quel che aveva commesso

Non gli portò una libertà sulla parola o una grazia
Non gli portò denaro, né sfarzo o stile
Fu un’aura brillante, inviata giù dalla luce del paradiso
Il regalo più dolce, il sorriso di una madre

Lasciò un sorriso da ricordare
Andò in cielo col cuore libero dalle pene
Quelle pareti che ti circondano non ebbero mai il potere di cambiarla
Tu eri il suo bambino e lo sarai per sempre

Non gli portò una libertà sulla parola o una grazia
Non gli portò  né argento, né sfarzo o stile
Fu un’aura brillante, inviata giù dalla luce del paradiso
Il regalo più dolce, il sorriso di una madre
Il regalo più dolce, il sorriso di una madre



giovedì 2 luglio 2020

A Rainy Night In Soho


Una delle grandi ballate di Shane MacGowan, pubblicata nel 1986, nell'EP "Poguetry in Motion". Fu incisa anche da Nick Cave, quando nel 1992 lui e MacGowan pubblicarono una versione a due voci di "What a Wonderful World" in un disco che vedeva anche i due artisti interpretare un brano scritto dall'altro, rispettivamente.




Ti ho amata per tanto tempo
Lungo tutti questi anni, tutti i giorni
E ho pianto per tutte le tue pene
Ho sorriso delle tue piccole buffe abitudini

Abbiamo osservato i nostri amici crescere insieme
E li abbiamo visti cadere
Alcuni di loro sono caduti in cielo
Alcuni di loro sono caduti nell’inferno

Mi riparai da un acquazzone
E incappai tra le tue braccia
In una notte piovosa a Soho
Il vento stava fischiando tutti i suoi incantesimi

Ti cantai tutte le mie pene
Tu mi raccontasti tutte le tue gioie
Che ne sarà stato di quella vecchia canzone?
Di tutte quelle ragazzine, di quei ragazzi?


A volte mi svegliavo al mattino
La rossa signora accanto al letto
Avvolto in un manto di silenzio
Ti sentivo parlare nella mia testa

Non sto cantando per il futuro
Non sto sognando del passato
Non sto parlando delle prime volte
Non penso mai all’ultima

Ora, la canzone è quasi alla fine
Potremmo non scoprire mai quel che significa
Ma c’è una luce che tengo innanzi a me
Tu sei il metro dei miei sogni, il metro dei miei sogni