In tedesco "übersetzen" è tradurre, ma anche traghettare; questa "strana barca" vuole quindi trasportare parole da una sponda all'altra di lingue diverse, sperando che non risentano troppo della traversata.
Già dal primo disco dei Pogues le capacità compositive di Shane MacGowan dispiegano tutta la loro potenzialità per quanto riguarda l'ironia, il disincanto e la gioia di vivere, o trascorrere, un'esistenza votata al qui e ora. Viene chiamato in causa un riferimento letterario imprescindibile, uno dei più importanti autori irlandesi, il Brendan Behan che ha a che fare anche con la riproposizione di "The Auld Triangle" nello stesso LP, una canzone compresa nel suo lavoro teatrale "The Quare Fellow", del 1954.
Sognai di incontrare Behan Gli strinsi vigorosamente la mano e trascorremmo gran parte della giornata Quando fu interrogato sul suo punto di vista Per quanto riguarda la croce delle filosofie sulla vita Non ebbe da dire altro che queste poche chiare e semplici parole Me ne andrò, me ne andrò Da qualunque parte soffi il vento Me ne andrò, me ne andrò Dove scorrono fiumi di whiskey
Ho imprecato, spergiurato Sono evaso e son finito in prigione La vita spesso ci ha provato a costringermi Ma il cappio era sempre lasco E ora che ho un gruzzoletto Me ne andrò giù a Chelsea Ci entrerò sulle mie gambe Ma uscirò sdraiato a pancia in sù
Me ne andrò, me ne andrò Da qualunque parte soffi il vento Me ne andrò, me ne andrò Dove scorrono fiumi di whiskey
Oh le parole che disse Mi sembrarono la più saggia delle filosofie Non si guadagna mai nulla Da quel qualcosa di umido che chiamano una lacrima Quando il mondo è troppo scuro E ho bisogno di una luce dentro me Me ne entro in un bar E mi bevo quindici pinte di birra
Me ne andrò, me ne andrò Da qualunque parte soffi il vento Me ne andrò, me ne andrò Dove scorrono fiumi di whiskey Dove scorrono fiumi di whiskey Dove scorrono fiumi di whiskey
Questa settimana traduco un articolo tedesco sui Thin White Rope, in originale sul sito https://gabelheu.de/
Thin White Rope e la poesia del decadimento
Tutto ciò che vive prima o poi non sarà più. La
transitorietà ci avvolge, simile a una veste invisibile, che indossiamo fino a
quando l’ultimo accordo dell’esistenza è risuonato. Difficilmente un’altra band
ha messo in musica questa cognizione in maniera più adeguata di quanto abbiano
fatto i Thin White Rope. Fondati nel 1981 a Davis, California, e denominati
seguendo una descrizione poetica di William S. Burroughs per lo sperma, il
quartetto, i cui unici componenti costanti nel tempo sono stati il cantante e
chitarrista Guy Kyser e il chitarrista Roger Kunkel, diede alla stampa cinque
album in studio: monoliti musicali, creati usando nuova psichedelica,
alt.country e krautrock, che avevano come argomento il Divenire, l’Essere e il
Trascorrere.
I testi di Kyser (qualche volta coautore con altri membri
del gruppo) sono ineguagliati nel mondo musicale: come ammiratore del grande
maestro del neo-Western da vecchio testamento, lo scrittore Cormac McCarthy,
ritrasse personaggi abbandonati alla tempesta dell’esistenza. La canzone “Down
in the Desert”, ad esempio, propulsa spietatamente dallo staccato dei tamburi,
la prima del disco di debutto “Exploring the Axis” del 1985, racconta di un
uomo che dopo anni trascorsi girovagando nel deserto torna nel suo villaggio.
Non è più colui che era una volta: “Karl tornò e lavora e sorride/ ma se guardi
più da vicino c’è ancora qualcosa di impaurito nei suoi occhi”, canta Kyser con
voce evocativa. Karl non rimarrà l’unico personaggio che di fronte a una Natura
schiacciante, immensamente minacciosa, arriva a percepire la nullità della
propria esistenza.
Sul secondo lavoro, pubblicato nel 1987 il deserto diventa
effettivamente suono: le canzoni esercitano già ogni elemento di quello che
anni dopo sarebbe passato alla storia dei fumatori come Stoner Rock. Il pezzo
che più apertamente tratta della morte è “Coming Around”, una sorta di
Hillbilly sferzante sulla rinascita. “Dave vidi il tuo piccolo pugno intorno
alla tetta di una lebbrosa / Gesù camminava affianco a te e non te ne fregava
un cazzo / Andy uccise un animale, lo uccise con le proprie mani / e lo diede
tutto a me perché ero una donna allora” sbraita Kyser, il quale con l’ultimo
verso da per scontata l’assurdità della separazione tra i sessi.
Il filo rosso molto evocato è nei Thin White Rope più che
soltanto una variazione sul tema della morte. Le cognizioni si propagano di
album in album, simili a escrescenze selvaggiamente proliferanti, vengono
indagate e nuovamente accettate. “Whirling Dervish”, uno schiacciante
Bluegrass imbevuto di malinconia dal quarto album “Sack Full of Silver”,
diventa un’ammissione della temporaneità: “Quando la sostanza della nostra vita
insieme diviene troppa / e tu minacci di togliere il turbine del tuo tocco / io
sono solo un pezzo di spazzatura a un miglio di altezza / che si aggrappa alla
sabbia cadente che mi tiene in cielo”. Qui la minacciosità di Down in the
Desert cede a un’accettazione dell‘inevitabilità come componente fissa del
nostro Essere.
Kyser si reca definitivamente nel grembo della morte in “The
Ruby Sea”, il tonante pezzo di apertura dell’omonimo quinto e ultimo lavoro dei
Thin White Rope. Qui l’io narrante è un cadavere annegato, il quale vuole
trovare riposo nel mare. Il suo sforzo viene disturbato da una donna, la quale
dapprima attraverso il fondo trasparente di una nave lo osserva, quindi si
accovaccia nuda davanti a lui: “Ma non sto pensando a quella perdita / ma solo
al fatto della perdita”, ammette Kyser. Non indente rimuginare sul desiderio
fisico, che un tempo era parte del suo essere, ma piuttosto sul dato di fatto
che la perdita è inevitabile – e che anche lo sguardo al grembo, che dona vita,
non porterà alcun cambiamento.
Purtroppo non ci sarebbe stato seguito. 28 anni fa i Thin
White Rope tennero nella città belga di Gent il loro concerto di addio, il
quale di lì a breve uscì come album doppio con il titolo The One Who Got Away ed
è entrato negli annali musicali di chi scrive come più importante e commovente
momento Live della storia. Troppe poche le persone che durante la loro carriera
si accorsero di questa formazione eccezionale. E nel frattempo poco è cambiato.
Il gruppo Facebook di fan dei Thin White Rope arriva appena a 701 membri, tra
cui anche ex componenti del gruppo. Visto con gli occhi di oggi, un motivo
potrebbe essere che Thin White Rope nella loro determinazione – sia per quanto
riguarda il loro sound, sia nei testi – per molti fossero semplicemente troppo
opprimenti.
Sostituirono la striscia argentea all’orizzonte con
un’alluvione apocalittica, che avrebbe dovuto trascinare via ognuno barcollante
nell’eternità. Coloro che furono pronti a lasciarsi trasportare scoprirono la
malinconia, la nostalgia, lo struggimento, la fragilità, che furono sempre
anche parte del loro universo. Un universo che va scoperto in tutta la sua
bellezza putrescente.
Una canzone scritta da James B. Coats, insegnante
di musica e compositore di molti brani gospel, e incisa per la prima volta nel
1946, fu poi ripresa da Linda Ronstadt sul suo album “Prisoner in Disguise”.
Un giorno una madre si recò in una prigione
A trovare un figlio prezioso, che aveva sbagliato
Raccontò al guardiano quanto ella lo amava
Non importava quel che aveva commesso
Non gli portò una libertà sulla parola o una
grazia
Non gli portò denaro, né sfarzo o stile
Fu un’aura brillante, inviata giù dalla luce del
paradiso
Il regalo più dolce, il sorriso di una madre
Lasciò un sorriso da ricordare
Andò in cielo col cuore libero dalle pene
Quelle pareti che ti circondano non ebbero mai il
potere di cambiarla
Tu eri il suo bambino e lo sarai per sempre
Non gli portò una libertà sulla parola o una
grazia
Non gli portò né argento, né sfarzo o stile
Fu un’aura brillante, inviata giù dalla luce del
paradiso
Una delle grandi ballate di Shane MacGowan, pubblicata nel 1986, nell'EP "Poguetry in Motion". Fu incisa anche da Nick Cave, quando nel 1992 lui e MacGowan pubblicarono una versione a due voci di "What a Wonderful World" in un disco che vedeva anche i due artisti interpretare un brano scritto dall'altro, rispettivamente.
Ti ho amata per tanto tempo
Lungo tutti questi anni, tutti i giorni
E ho pianto per tutte le tue pene
Ho sorriso delle tue piccole buffe abitudini
Abbiamo osservato i nostri amici crescere insieme
E li abbiamo visti cadere
Alcuni di loro sono caduti in cielo
Alcuni di loro sono caduti nell’inferno
Mi riparai da un acquazzone
E incappai tra le tue braccia
In una notte piovosa a Soho
Il vento stava fischiando tutti i suoi incantesimi
Ti cantai tutte le mie pene
Tu mi raccontasti tutte le tue gioie
Che ne sarà stato di quella vecchia canzone?
Di tutte quelle ragazzine, di quei ragazzi?
A volte mi svegliavo al mattino
La rossa signora accanto al letto
Avvolto in un manto di silenzio
Ti sentivo parlare nella mia testa
Non sto cantando per il futuro
Non sto sognando del passato
Non sto parlando delle prime volte
Non penso mai all’ultima
Ora, la canzone è quasi alla fine
Potremmo non scoprire mai quel che significa
Ma c’è una luce che tengo innanzi a me
Tu sei il metro dei miei sogni, il metro dei miei sogni